AUTOSTIMA, INSICUREZZA, TIMIDEZZA: PAURA DI PARLARE IN PUBBLICO, PAURA DI NON ESSERE ALL’ALTEZZA
La scarsa autostima personale è la più frequente causa di insicurezza relazionale:
non sono gli atri a spaventarci, ma la considerazione che abbiamo di noi stessi.
(Alessandro Bartoletti)
L’AUTOSTIMA
La maggior parte delle persone che si rivolgono alla psicologia spesso durante il corso delle sedute tira fuori il tema dell’autostima: «Sa dottore, il mio forse è un problema di autostima». Non si fugge a questa regola. Perché in fondo tutto quello che ci riguarda da vicino ha a che vedere con l’immagine che abbiamo di noi stessi e con l’immagine che cerchiamo di riflettere agli altri.
Ma cos’è veramente questa autostima? Molto semplicemente: è la considerazione che un individuo ha di sé stesso. Di sicuro non è un tratto innato della nostra personalità. Non si nasce con un’autostima alta o bassa, o media o nulla.
Come tutte le percezioni complesse, il senso di autostima è una costruzione interiore ed è il frutto di processi percettivi, cognitivi ed emotivi. È una costruzione mentale che piano piano si forma fin dalla prima infanzia ed è lo specchio della nostra interazione con il mondo esterno e con il mondo interiore. Sono le esperienze che facciamo, il rapporto che costruiamo con noi stessi, che gradualmente contribuiscono a formare il personale senso dell’autostima.
L’autostima va dunque vista non come una causa, ma come un effetto del nostro essere nel mondo, del nostro interagire con la realtà interna ed esterna.
L’INSICUREZZA E IL COMPLESSO DI INFERIORITA’
Alcuni psicologi hanno esplorato in modo magistrale questo concetto fin dagli esordi della psicoterapia. Uno su tutti: Alfred Adler, il famoso psicanalista austriaco basò il suo intero sistema di terapia sull’idea di liberarsi dal senso di inferiorità con cui si cresce. Sentirsi inferiori nei confronti degli altri era per Adler il vero problema che gli esseri umani devono risolvere nella loro vita.
Adler racconta nelle sue memorie di aver vissuto un’infanzia infelice, all’ombra del fratello maggiore, che era trattato da tutti come un bambino modello ed era il prediletto della madre. Lui crebbe con l’idea di non poter mai essere all’altezza del fratello.
Poi si dice che gli psicologi non hanno qualche nucleo problematico – sì, come tutti. La differenza è che spesso sono disposti ad affrontarli e poi ci fondano sopra qualche teoria che apre degli squarci di osservazione eccezionali sul comportamento umano – rispetto invece a chi si rifugia nel machismo e nello scetticismo ignorante e superficiale, «Perché non ho nessun problema, io, mica sono matto».
Adler arrivò a teorizzare che l’estrema piccolezza e vulnerabilità del bambino producesse un sentimento generale d’inferiorità sperimentato da tutti gli esseri umani, dato che tutti, almeno durante l’infanzia sono in balia della situazione ambientale, di forze che non controllano affatto, gli adulti, il mondo circostante.
Da qui, sempre secondo Adler, la spinta alla compensazione: se la forza primaria da cui dipende il comportamento è rappresentata da un generale sentimento d’inferiorità, ecco che tutti gli esseri umani tenderanno a compensare, per eccesso, questo difetto. Alcuni ci riescono in modo esuberante, altri meno. Alcuni esempi. Demostene diventa un grande oratore nonostante il suo problema di balbuzie. Napoleone che ricerca potere, successo e conquista a causa del senso di inferiorità dovuto alla sua altezza. Il self-made-man di umili origini che sale i gradini della classe sociale con tenacia e sacrificio. E miliardi di altri esempi in cui è possibile leggere un filo conduttore tra senso di inferiorità e autorealizzazione.
LA PAURA DI PARLARE IN PUBBLICO (E DELL’ESPOSIZIONE SOCIALE)
Vi è poi un altro psicologo sociale a cui non possiamo non pensare quando si parla della paura del giudizio degli altri e dell’importanza che diamo alla nostra immagine pubblica: Erving Goffmann.
La sua è una teoria decisamente affascinante, poiché descrive l’interazione umana da una prospettiva veramente particolare. Potremmo dire che è una teoria spettacolare e drammatica, e infatti questa idea è definita l’«approccio teatrale» di Erving Goffman.
Egli descrive la vita quotidiana come una rappresentazione che vede i protagonisti continuamente impegnati nel costruire un’immagine di sé stessi da presentare agli occhi altrui, come degli attori sul palcoscenico di un teatro. Ben prima dello scienziato, il poeta aveva già colto il fenomeno. Ecco cosa ci racconta Shakespeare sulla natura degli uomini nella sua commedia As you like it: “Tutto il mondo è un palcoscenico, e tutti, uomini e donne, sono solo degli attori”.
Tornando al nostro tema, risulta evidente quanto il senso di autostima e di sicurezza sia connesso alla dimensione sociale dell’esistenza. Siamo tutti continuamente giudici e imputati, perché non possiamo dimenticare che abbiamo continuamente a che fare con un giudice interno e con un giudice esterno, questa è la nostra natura.
LE 6 TIPOLOGIE DELLA PAURA DI NON ESSERE ALL’ALTEZZA
A questo punto non ci resta che fare una rapida carrellata delle varie forme dell’insicurezza. Dall’ottica della psicoterapia breve strateegica è possibile proporre una «fenomenologia dell’insicurezza», una visione quindi molto pragmatica, che si basa sulla reale esperienza professionale clinica dei professionisti che si occupano di psicologia strategica.
Quando in terapia abbiamo a che fare con una persona che lamenta problemi di autostima, in genere possiamo identificare una di queste sei forme di insicurezza.
1) LA PAURA DI ESPORSI E DI PARLARE IN PUBBLICO
È la paura più frequente con cui ci confrontiamo. Ci si potrebbe chiedere, da quale numero di persone in poi si può considerare di avere a che fare con un pubblico, una platea: 10, 100, mille persone rappresentano un pubblico? Molto meno, la psicologia sociale ci informa che già a partire dal magico numero di 2 persone, la nostra percezione degli altri si trasforma: dal considerare i singoli in una relazione interpersonale diadica, one-to-one, passiamo a vederli come un’unica entità monolitica, un gruppo, un pubblico, una platea. I conti sono dunque presto fatti: qualsiasi situazione sociale può essere imbarazzante, dal parlare col panettiere in fila al bancone del supermercato, al partecipare alla riunione di condominio.
La paura di parlare in pubblico e di esporsi è dunque la più classica delle classiche manifestazioni d’insicurezza.
Il vissuto interno è lapalissiano: la paura di fare una figuraccia, di sbagliare, impappinarsi, confondersi, sentirsi osservato, giudicato, svalutato. Imbarazzo e vergogna: i fantasmi della risibilità.
Ma che tipo di comportamenti mette in atto chi soffre di questa forma di insicurezza a un livello patologico.
Tre strategie, o farei meglio a chiamarle tentate soluzioni, perché in realtà contribuiscono ad aumentare la paura invece di risolverla.
La prima è l’evitamento, l’elusione. Ci si dà alla macchia. Semplice. Chi ha paura di esporsi evita le situazioni di esposizione. Evita di parlare, o se lo fa, si limita unicamente ad avvalorare le opinioni espresse da altri. Non sale sul palcoscenico. Sta in platea, anzi, in piccionaia.
La seconda tentata soluzione è quella del prendere precauzioni. Vi è mai capitato di vedere quei manager attaccati alla bottiglietta d’acqua durante uno speach, oppure quei relatori che parlano, ma solo da seduti – ora mi tocca pure alzarmi – oppure quei relatori che parlano ma solo leggendo dal foglio davanti a sé?
Terza tentata soluzione: l’ipercontrollo ossessivo di se stessi e delle proprie azioni. La pianificazione ossessiva di tutto quello che vorremmo dire e del modo in cui lo diremo. Qui, ho un esempio su tutti: lo studente perfezionista. Quello studente che si blocca nel tentativo di sapere tutto alla perfezione per la paura di sfigurare, e dunque, non si sente mai sufficientemente all’altezza, mai sufficientemente preparato e, se va bene, fa un esame l’anno, se va male non si presenta per niente agli esami, nonostante abbia strastudiato.
C’è anche una quarta tentata soluzione a dire il vero: il tentativo di dissimulare e di nascondere la propria tensione interiore, reprimendo e cercando di non far vedere la propria ansia agli altri. Una lotta intestina che porta in genere a un esito ancora più ansiogeno. Il più delle volte, dissimulando, le persone riescono a gestire efficacemente le proprie reazioni emotive. Tuttavia, specie in situazioni molto espositive, l’ipercontrollo volontario può rivelarsi un’arma a doppio taglio. La tachicardia, la sudorazione, l’arrossamento, il tremore: sono tutte reazioni psicofisiologiche spontanee dell’organismo di fronte allo stress di esporsi. Ciò ne rende impossibile un controllo totalmente razionale, che infatti può funzionare solo entro una certa soglia, oltre la quale ogni ulteriore tentativo di controllare e “sedare” e nascondere le proprie reazioni si trasforma nel suo opposto: amplifica, rendendoli ancora più visibili, i sintomi dell’ansia. È il controllo che fa perdere il controllo. Dalla padella si passa alla brace.
La paura di esporsi. Potremmo sintetizzarla così. Mark Twain una volta scrisse: quale organo meraviglioso è il cervello: funziona per tutta la vita, dalla nascita alla morte, e non si ferma mai, tranne quando deve parlare in pubblico.
2) LA PAURA DI NON PIACERE (O DELLA DISAPPROVAZIONE)
Un’altra forma di insicurezza consistere nella paura di perdere il riconoscimento, l’approvazione, il consenso: l’apprezzamento da parte degli altri. È la paura di non essere accettati. È il tentativo di cercare di piacere a tutti costi. È la sindrome dell’iper-disponibilità.
Chi ha questa paura di sottofondo, nelle relazioni può esprimere una gamma di comportamenti che vanno dalla compiacenza continua, la piaggeria, il servilismo, fino, nelle forme più gravi, alla prostituzione relazionale – una forma di sacrificio e di abnegazione totale per andare incontro alle esigenze altrui – sempre determinata da questa paura di sottofondo di perdere l’approvazione degli altri.
C’è un’importante declinazione di questo timore che possiamo osservare nel mondo digitale, in particolare sui social: è la cosiddetta sindrome FOMO, che sta per «fear of missing out», la paura di essere tagliati fuori, di essere esclusi, di non vedersi riconosciuti sui social. E si manifesta quindi nell’ossessione di guardare quanti like ha ricevuto il proprio post, la propria story. E dunque nel tentativo di produrre contenuti, immagini post, comunicazioni “piaggioniche” pur di farsi accettare – il copyright è di Gigi Proietti. FOMO: il pietismo sui social: cosa non si fa per un like in più.
Le tentate soluzioni tipiche di questa forma di insicurezza sono abbastanza ovvie: la prima consiste nell’assecondare e compiacere gli altri di fronte a qualsiasi loro richiesta. Si ha difficoltà a dire “no” a qualsiasi richiesta gli altri ci facciano. I problemi sorgono quando si ricevono richieste esose in termini di emotivi o economici.
La seconda tentata soluzione consiste nell’anticipare continuamente i bisogni degli altri – e quindi fare delle cose pensando possano essere gradite agli altri – anche senza che siano state richieste.
La terza tentata soluzione la potrei definire così: evitare ogni forma di sano egoismo. Ovverosia, evitare di esprimere desideri o esigenze personali oppure evitare di dire cose che si teme che gli altri non approvino. Reprimere i propri bisogni. Per cui si cerca sempre di prendere decisioni coinvolgendo gli altri nel processo decisionale per essere sicuri della loro approvazione: «A te va bene se andiamo in vacanza qui, caro? O preferisci che prenoti da un’altra parte? Dimmi tu, e io farò tutto quello che vorrai?»
L’ultima tentata soluzione è direttamente connessa a quest’ultima appena descritta: il vittimismo relazionale.
Il lamentarsi che gli altri non riconoscono i nostri sacrifici nei loro confronti. Questa forma di vittimismo potrà sembrare paradossale, ma il desiderio nascosto di chi ricerca l’approvazione a tutti i costi è proprio quello di sentirsi riconosciuti per quello che fa. Ma, ahimè, il destino di questo copione relazionale vuole che le persone oggetto di cotanto sacrificio dopo un po’ smettono di ringraziare e di stupirsi per la tanta disponibilità mostrata, e iniziano a darla per scontata – anzi addirittura se la aspettano e la pretendono. Questo produce nella persona bisognosa di conferme uno stato di forte frustrazione e lo porta lamentarsi e a rinfacciare: «Io mi sacrifico per te, e questo è il tuo ringraziamento!»
E sul lungo andare porta anche a deprimersi, perché ci si rende conto della propria solitudine.
La paura di perdere l’approvazione altrui e di non piacere a tutti potrebbe essere definita anche come il timore di divenire impopolari. E quindi si potrebbe pensare che sia il terrore dei politici: perdere l’approvazione dei cittadini. E si potrebbe anche pensare che questo potrebbe portare il politico a comportamenti di maggiore abnegazione, sacrificio, impegno in relazione ai bisogni dei cittadini – raramente tuttavia si vedono politici affetti da una tale sindrome che sarebbe così funzionale alla gestione della res publica.
3) LA PAURA DEL RIFIUTO
Una terza comune forma di insicurezza è la paura di essere rifiutati dagli altri. La paura del rifiuto è qualcosa di più esteso rispetto alla precedente ricerca del consenso e dell’approvazione, perché si presenta su molti più aspetti personali.
È il non sentirsi mai “abbastanza”, tanto da aver paura di non essere accettati dagli altri. E dunque: non mi sento abbastanza bravo, non mi sento abbastanza bello, non mi sento abbastanza alto, non mi sento abbastanza intelligente, non mi sento abbastanza spigliato, non mi sento abbastanza colto, non mi sento abbastanza simpatico, non mi sento abbastanza ricco, non mi sento affascinante – per cui ho paura di essere rifiutato.
Ora, in genere basta sentirsi fortemente insicuri su un solo aspetto per stare molto male; non dobbiamo avere tutta la lista delle insicurezze. Anche perché se la paura di essere rifiutati si fondasse su tutti quegli esempi precedenti, non avremmo a che fare con un problema di autostima ma piuttosto con una vera e propria sindrome persecutoria o con un problema di depressione maggiore.
Ironia della sorte, chi ha paura del rifiuto spesso mette in atto un comportamento che lo protegge dal rifiuto: si autoesclude. Evita cioè le interazioni sociali, tutte, o alcune in particolare. Evita ad esempio di confrontarsi con persone che reputa più intelligenti, più colte, più social, più belle, e così via. E così conferma a se stesso la sua insicurezza di partenza.
I due esempi più comuni di questo comportamento li vediamo in alcuni adolescenti o giovani che per paura di non sentirsi all’altezza dei loro pari si autoescludono isolandosi. A volte addirittura rifiutandosi di andare a scuola, a volte semplicemente evitando di avere amici. Sono ragazzi e ragazze, giovani, ma anche adulti che non hanno mai imparato come relazionarsi- e dunque non sentendosi all’altezza, evitano, si isolano, si autoescludono.
L’altro esempio è la paura in ambito sentimentale – questa è la più ovvia di tutte. Siccome ho paura di essere rifiutato o rifiutata, non mi espongo in modo seduttivo, non seduco né permetto agli altri di essere seduttivi con me, non do nessun feedback, nessun segnale; sono glaciale, ma in realtà è una forma di protezione.
La paura da cui ci si difende è collegata alle conseguenze emotive di un eventuale rifiuto: trovarsi in una situazione di imbarazzo, esporre la propria timidezza, o avere paura delle eventuali conseguenze di un rifiuto che potrebbero ad esempio portare alla fine di un rapporto di amicizia o di lavoro.
E infatti accanto all’isolamento e all’evitamento una seconda tentata soluzione è rappresentata proprio da quei comportamenti di protezione preventiva che finiscono per realizzare la profezia tanto temuta: ci si mostra freddi, distaccati, oppure interessati solo ad aspetti intellettuali e cerebrali proprio per paura di essere rifiutati proprio sul piano più epidermico, emotivo, sentimentale: si teme così tanto il rifiuto che si finisce per rifiutare preventivamente gli altri. Un contrappasso dantesco.
4) LA PAURA DEL CONFLITTO
La paura del conflitto è più comune di quanto si possa pensare e spesso si nasconde dietro un’apparente e costante gentilezza. Chi si sente insicuro tanto da evitare ogni forma di conflitto in genere ha due tipi di paure: o teme di non sapere gestire emotivamente l’aggressività altrui, esserne travolto, subirla; è spaventato di come e quanto gli altri possano essere rabbiosi o tenaci o impulsivi o prepotenti. Oppure, altra faccia della stessa medaglia, ha paura di se stesso, di come potrebbe reagire se preso dall’ira, ha paura di poter perdere il proprio autocontrollo in una ipotetica situazione di interazione conflittuale.
Per conflitto, però, non si intende necessariamente il litigio aperto e conclamato. Basta molto meno. Qualsiasi forma di interazione un minimo contraddittoria o di bassa tensione viene temuta. E quindi viene evitata. Questa è la prima tentata soluzione.
Chi teme il conflitto si trasforma spesso in uno “yes man”, una persona che deve essere morbida e accogliente a tutti i costi. Una persona che non solo ha difficoltà a dire no, ma che di fronte ai dinieghi altrui, quando ad esempio è lui a ricevere un no, si riadatta, ripiega sua altri modi per ottenere quello di cui ha bisogno ma sempre cercando di evitare qualsiasi tensione.
Da fuori, una persona affabile e sempre gentile, dentro un vulcano che ribolle di rabbia e frustrazione. Perché l’ulteriore tentata soluzione è quella del reprimere qualsiasi espressione personale di disappunto, di fastidio. E prima o poi si finisce per implodere.
Infine, chi teme il conflitto instaura relazioni iper-democratiche, nel senso che evita di porsi gerarchicamente anche quando la situazione lo richiederebbe – e non mi riferisco unicamente ai rapporti lavorativi – ma si pensi ad esempio alla relazione con i figli. Alcuni genitori per paura del conflitto finiscono per assecondare e cedere su qualsiasi richiesta fatta dai figli finendo per trasformarli in piccoli tiranni, quando magari i figli avrebbero molto più bisogno di essere guidati ed educati, non viziati.
5) LA PAURA DI ESSERE INCAPACI E INADEGUATI (SINDROME DELL’IMPOSTORE)
Passiamo ora a un’altra forma di insicurezza, decisamente molto iconica: la paura di essere incapaci, inadeguati, non all’altezza.
Chi ha questa forma di insicurezza a un livello – importante – è come se albergasse uno scomodo inquilino interno che gli parla continuamente e con cui ha un dialogo interiore: è un censore, che gli dice cosa è giusto e cosa è sbagliato – è un inquisitore, che gli ricorda i suoi doveri e gli ricorda che non sta facendo abbastanza; a volte è un persecutore che lo insulta ripetendogli quando è inadeguato, inadatto, incapace, incompetente, fasullo, un bluff; è un criticista, che gli rammenta che non è perfetto: deve migliorarsi, diventare il migliore.
Ora, questo copione è forse uno dei più sofferti: non è facile avere a che fare con questo genitore interno, fastidioso e punitivo, come un Super-Io freudiano – una coscienza morale degna di un inquisitore medioevale.
Le tentate soluzioni collegate a questo vissuto sono identiche e opposte. La prima ci ricorda perfettamente il concetto di compensazione descritto da Adler di cui abbiamo parlato all’inizio: se mi sento continuamente soggiogato da questo senso di inferiorità cercherò di compensare, di colmare la lacuna, impegnandomi di più, sempre di più: con – diligenza, fervore, impegno, dedizione, sacrificio, fatica, sudore. Perché, mi devo elevare, devo migliorare, devo dimostrare – di essere all’altezza.
L’altro modo a mia disposizione per gestire cotanta richiesta interna – è la rinuncia. Sono inadeguato, non sono perfetto, non sono all’altezza: è inutile impegnarsi, getto la spugna. E mi deprimo.
6) LA PAURA DI DELUDERE LE ASPETTATIVE
E concludiamo con un’ultima forma di insicurezza, se vogliamo decisamente scontata. La possiamo definire così: il peso delle aspettative.
La paura di deludere le aspettative altrui è una delle più comuni e scontate forme di insicurezza, ed è strettamente connessa con la paura di fallire. Perché fallendo, sbagliando, non raggiungendo un qualsiasi obiettivo – dimostreremmo agli altri di non essere all’altezza dell’idea che hanno di noi, delle aspettative che si sono costruiti su di noi.
Li deluderemmo, perderemmo l’immagine positiva che – riteniamo – gli altri si siano fatti di noi. E siccome a nessuno piace deludere gli altri, le tentate soluzioni tipiche della paura di deludere gli altri e di fallire sono sempre connesse con il non mettersi in gioco per niente, evitando quindi di confrontarsi con sfide, obiettivi, difficoltà, problemi.
Tipico è ad esempio il caso dello studente che ha avuto sempre successo a scuola fino alle scuole superiori – da tutti elogiato, portato ad esempio, quasi glorificato – che di fronte alle prime difficoltà universitarie – un esame andato male, un voto più basso di quanto lui reterebbe gli altri si aspettino da lui – inizia a bloccarsi: sotto il peso delle aspettative. Se non posso vincere, rinuncio a priori: così non metterò a nudo i miei fallimenti dimostrando a tutti di non essere all’altezza delle aspettative che riversano su di me. Atteggiamento tanto logico, quanto fallimentare.
COME PUO’ AIUTARTI LA PSICOTERAPIA BREVE STRATEGICA? RICOSTRUIRE LA SICUREZZA E SVILUPPARE L’AUTOSTIMA
Così come molti sono i labirinti dell’insicurezza umana, molte sono le strategie terapeutiche che si possono utilizzare per cercare di ricostruire l’autostima e la sicurezza. Gli esempi fatti sin qui non sono certo esaustivi di tutte le forme di insicurezza e di timore che possono assalire gli esseri umani, ma sicuramente rappresentano bene quelle più comuni e più connesse con il senso di auto-considerazione di se stessi.
Ne consegue che il lavoro terapeutico deve sempre come prima cosa essere rivolto ad identificare le percezioni principali attorno alle quali ruota la propria insiscurezza. Da questa fase ne consegue sempre un lavoro “sartoriale” che aiuti la persona mediante piccoli stratagemmi ed “esperimenti sul campo” a sperimentarsi in modo diverso e a superare paure o blocchi che lo hanno portato a costruire una bassa autostima.
A fondamento dell’esperienza clinica, è possibile identificare alcuni “principi costruttivi” della nostra autostima che tutti noi dovremmo sempre tenere presenti, diversi a seconda dei diversi copioni di insicurezza. Con gli strumenti della psicoterapia breve strategica, si lavorerà di volta in volta per modificare quelle percezioni e perseguire un nuovo equilibrio di benessere e di auto-considerazione.
1. Paura dell’esposizione. Se non ti esponi, comunichi solo che hai paura di comunicare. Paul Watzlawick ci ha ricordato in un suo famosissimo assioma che “non è possibile non comunicare”, quindi nascondendoti, comunichi eccome, ma solo la tua paura. Esporti e comunicare è la tua unica occasione di essere vitale!
Con la psicoterapia breve strategica si lavora sulla paura espositiva mediante tecniche emotive e comportamentali che portano a graduali esperimenti espositivi. Nulla di funambolico o di traumatico, al contrario, quando le persone capiscono che hanno gli strumenti per poter esprimere sé stessi liberamente iniziano da sole a… prenderci gusto.
2. Paura di non piacere. Il servilismo ti renderà solo schiavo degli altri e mai padrone di te stesso. La storia umana è già stata sufficientemente spettatrice di tante epoche di schiavitù: non servono ulteriori contributi. Se non vivi per te stesso, non ha senso vivere per nessun altro.
Il lavoro terapeutico consiste in questi casi nel riorientare le risorse individuali verso un “sano egoismo” mediante piccoli esercizi di “self-care”: curare se stessi, i propri bisogni, le proprie inclinazioni, le proprie necessità, i propri piaceri.
3. Paura del rifiuto. Chi ti rifiuta, non ti merita. E non ci dovrebbe essere bisogno di aggiungere altro.
La psicoterapia strategica guida in questi casi a costruire “resilienza” nei confronti del rifiuto mediante tecniche graduali di aggiramento della resistenza.
4. Paura del conflitto. Il conflitto è presente in tutte le cose, non si può evitare. Il buon vecchio Eraclito ci ricorda che “il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re”. Il conflitto è alla base dell’interazione e dello scambio sociale. Ovviamente, meglio se non armato. Ma non va evitato, va accettato.
Anche in questo ambito il lavoro strategico procede verso l’acquisizione della consapevolezza che la nostra capacità di “opporci” alle visioni del mondo altrui, e di esprimere la nosta personale opinione, non produce quasi mai effetti catastrofici. In aggiunta si lavora allo sviluppo di capacità comunicative che permettano di modulare se stessi lungo il continuum mediazione-assertività.
5. Paura di non valere. L’avversario è sempre nella nostra metà del campo: è il nostro “inquisitore” interno. Siamo noi i primi nemici di noi stessi. Dobbiamo imparare ad amarci e a rispettarci e mettere in riga il nostro censore interno.
La psicoterapia strategica guida a sperimentare alcuni tecniche paradossali per smontare il dialogo interno criticista.
6. Paura delle aspettative. Quello che gli altri si aspettano da noi… è stupido pensarci e porsi il problema. Se pensi che qualcuno si aspetti da te quella o quell’altra performance, lascialo aspettare. Hai la tua vita da vivere, non c’è tempo da perdere dietro alle aspettative altrui.
La paura del fallimento, la paura di sbagliare e delle conseguenze “sociali” dell’«errare humanum est» sono il focus dell’intervento strategico. In modo molto strategico e paradossale è possibile strutturare un training volto ad “allenarsi perfettamente all’imperfezione”
Come per tutti gli interventi terapeuti in altri ambito clinici, il percorso viene inizialmente fissato nel range delle 10 sedute di lavoro per ottenere dei risultati significativi.
Per approfondire, video:
Per approfondire, libri:
Il libro affronta il variegato tema della paura di non essere all’altezza da una prospettiva molto pratico-operativa. L’ottica strategica sui problemi di autostima è infatti inversa rispetto a quella del senso comune che vorrebbe l’autostima essere una “qualità” a priori che si possiede fin dalla nascita. In realtà la considerazione di sé si costruisce sulla base delle nostre esperienze, ed è quindi direttamente connessa con gli effetti delle nostre azioni; è dunque un “effetto” piuttosto che una causa.
Il testo analizza le diverse declinazioni della paura di non essere all’altezza mediante racconti esemplificativi che descrivono alcuni reali casi clinici affrontati con le tecniche della psicoterapia breve strategica. Divertente e consigliato, anzi, all’altezza delle aspettative.
Alessandro Bartoletti
ROBERTA MILANESE. L’INGANNEVOLE PAURA DI NON ESSERE ALL’ALTEZZA. STRATEGIE PER RICONOSCERE IL PROPRIO VALORE. Ponte alle Grazie, 2020.
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